Con Giovanni Virnicchi scompare l’ultimo cronista di “nera” che ha legato la sua vita professionale in maniera militare alla sala stampa della Questura di Napoli. Un uomo che ha fuso inscindibilmente la sua esistenza con il mestiere, ricoprendo ruoli apicali, con il guizzo tipico di chi vede oltre l’orizzonte comune. Fin da quando giovanissimo mi sono affacciato alla professione, fin dal primo incontro, mi ha gratificato con l’appellativo di “collega”. A chi non è del mestiere la cosa può sembrare superflua, ma per un ragazzo che aspirava al “tesserino”, sentirsi riconosciuto da chi aveva già vissuto molte vite in questo periglioso mare, era ossigeno puro. A Giovanni Virnicchi mi legava un grande affetto, come naturalmente traspare da queste righe. Era un uomo capace di ispirare una naturale simpatia, era accogliente, dote rara. Ma a Virnicchi, oltre al talento e all’impressionante memoria legata a nomi, volti e circostanze, occorre riconoscere oggi più che mai la capacità di trasferire a chi gli era intorno, la voglia di raccontare e di approfondire. Aveva un immenso archivio di ritagli di giornale, che catalogava per quartieri. Questo gli consentiva di collocare gli eventi di cronaca geograficamente, nello scacchiere criminale e sulla mappa cittadina. Nella sua agenda non c’erano i numeri di telefono (questo ricordo lo devo a uno dei “figliocci”, anche lui cronista di razza, Giancarlo Maria Palombi), bensì i nomi delle persone arrestate. Cosicché, qualora si trovasse sulla scena di un omicidio, potesse immediatamente verificare se il malcapitato fosse stato già un “suo cliente”.
Sarebbero innumerevoli i ricordi e gli episodi ma su tutti ce n’è uno che, a mio modesto avviso, che lo racconta più di ogni altro. Giovanni Virnicchi (O Franco Virno, uno dei suo pseudonimi…) è stato il primo ad introdurre nell’attività di ricerca dell’informazione, l’uso della radiolina scanner, tarata sulle frequenze delle forze dell’ordine. Erano anni eroici, giova ricordarlo, dove il massimo della comunicazione era un numero di telefono fisso. Ma lo fece in una maniera che, solo a pensarci, potremmo definire “Virnicchiana”. Si recò all’istituto Colosimo che assiste ragazzi non vedenti con tre radioline. Ne fece dono a quelli che riteneva più svegli e li invitò, con qualche battuta capace di sdrammatizzare come solo lui sapeva fare, ad ascoltare ciò che da quelle radio veniva trasmesso. Poi gli diede il suo interno del Mattino, dove lo avrebbero sempre trovato. Divennero, quei ragazzi che per molti erano solo degli sfortunati e con un’esistenza segnata, le sue orecchie e i suoi “occhi virtuali” sulla cronaca. La sua radio lo ha accompagnato sempre, anche nell’esperienza successiva al Giornale di Napoli, come “trombettiere” per la Rai, collaboratore dell’Agi e ancora di Cronache di Napoli. Infine gli devo un ringraziamento. Quando entrai per la prima volta nella Sala Stampa della Questura in via Medina, avevo da poco iniziato a collaborare con una piccola e agguerrita Agenzia di Stampa, la Campania Press. Ma non ero ancora giornalista, quindi fui bruscamente invitato ad uscire dai presenti (non elenco i nomi perché, nonostante la rudezza dei modi, avevano ragione), perché quello era una sorta di tempio sacro. Ma fu grazie a lui e alla complicità dell’allora capo della Squadra Mobile, Giuseppe Palumbo, che potetti rientrare. Ebbi la possibilità, per un lungo periodo, di annusare quella passione e quell’adrenalina per questo mestiere, di iniziare a vedere da vicino come si costruiva un articolo, una pagina di giornale, di imparare sul campo. Virnicchi è uno dei rari maestri che ho incontrato sul mio cammino, per questo ancor oggi sapere che mi ha considerato un suo “collega” mi fa venire i brividi.