Il lavoro, subito dopo la salute, è l’argomento principale del dibattito sulle conseguenze della pandemia.
L’aspetto più discusso è quello della sua remotizzazione che la pandemia ci lascerà come stabile eredità.
Durante il lockdown, ad eccezione di coloro che sono stati posti in cassaintegrazione dall’emergenza e dei lavoratori rimasti “sul pezzo” perché impiegati in settori essenziali, tutti gli altri sono stati i protagonisti della prima improvvisa (e spesso improvvisata) esperienza planetaria di digitalizzazione di massa.
Nella stragrande maggioranza dei casi non si è trattato di smart working (SW) propriamente detto, bensì di una collocazione in “lavoro da remoto forzato” che, nel giro di qualche giorno, ha trasformato milioni di case in “uffici” ed altrettante persone in lavoratori solo nominalmente “smart”.
In Italia, tra il lockdown e la “Fase 1”, il lavoro da remoto avrebbe riguardato otto milioni di persone, che grazie alla tecnologia disponibile hanno potuto letteralmente salvare moltissime imprese e anche il proprio posto di lavoro. Ma quanti realmente lavorano da casa in maniera produttiva? A lanciare l’allarme il presidente dell’Associazione Notai cattolici Italiani Roberto Dante Cogliandro